Realtà e simbolo
Cara lettrice e caro lettore, come avrò detto qualche altra volta, al fine di semplificare le cose, userò il maschile per comodità.
E, dal momento che mi rivolgo a persone di ottima cultura, cercherò di essere più sintetica possibile per dire del modo in cui gli uomini siano riusciti a rendere simboliche le cose, che stanno in questo mondo e ad elaborarle, per darci una molteplicità di visioni, per farci passare dal dato fisico al dato metafisico, semplicemente mettendo insieme e trasformando le immagini assunte a simbolo di una qualche cosa.
Un esempio lampante la croce. Nella realtà è costituita da due pezzi di legno, poi divenuta emblema di sacrificio, morte, abnegazione, dolore e via discorrendo.
Nella civiltà occidentale, come voi lettori siete a conoscenza meglio di me, nacquero anche i miti, storie mai accadute ma sempre attuali, perché penetrano nella profondità della psiche umana e cercano di interpretarne i comportamenti.
Personalmente, invece, ho interpretato il simbolo diversamente. Ho pensato che Narciso, guardandosi nell’acqua, elemento mobile, logicamente non vedesse un’immagine stabile di sé ma tante immagini mutevoli, per cui, non riuscendosi a capacitare sulla vera, si tuffa nell’acqua per scoprirlo e annega e quindi diventa simbolo della complessità del reale.
Detto questo, non mi resta altro che portare all’attenzione del lettore, facendo un “saltino” di millenni, un dipinto della fine del ‘400: “Il giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch, che ammirai alcuni anni fa a Madrid, esposto solitario in una teca in bella vista, quasi a voler sottolineare la difficoltà della lettura dell’opera, che esprimeva in simboli complessi il pensiero religioso del periodo.
Gli stessi colori che determinano il tono dominante sono simboli, come il rosa o il rosso, le tinte dell’amore e stadio finale del magistero alchemico in quanto ultima fase della trasformazione dell’adepto, per raggiungere la perfezione e di cui parleremo in seguito.
Personalmente, spesso, ho relazioni con il mondo dell’arte e uno degli “avvenimenti” magnificato o denigrato su molte riviste del settore è stato questo: un artista, certo Habacuc Vargas, ha recuperato un cane morente, lo ha portato in una galleria d’arte, lo ha legato a una corda impedendogli di alimentarsi e poi lo ha fotografato. Questo ha fatto scandalo, ma scandalo e niente più, secondo la mia modesta opinione.
In concreto, per comprendere meglio il concetto di cui sopra, porto ad esempio un quadro che tante persone conoscono: “Il seppellimento di Santa Lucia”, nella Chiesa di Santa Lucia fuori le mura a Siracusa, eseguita dal Caravaggio nel 1608 durante l’ultima delle sue fughe.
Qui il simbolico è completamente stravolto rispetto all’iconografia del tempo.
La santa, simile a un fiore delicato, giace a terra, le fanno da contrasto, in primo piano, le figure enormi, quasi fossero energumeni, dei seppellitori, simbolo della violenza bruta perpetrata nei confronti del più debole, dell’inerme.
Quale quinta di palcoscenico vediamo la folla dei fedeli con i volti addolorati. Il tutto schiacciato in basso da una enorme campitura scura nella parte superiore del quadro, che dispone, e quasi obbliga l’occhio alla fruizione della parte inferiore e in primis del primo piano con i corpi enormi dei seppellitori, come facevo notare, a voler simboleggiare che la forza, la violenza che prevale sulla santità, sulla bontà, almeno su questa terra. Mentre la santa, altro simbolo, giace a terra, dipinta contro i dettami della Controriforma, che aveva stabilito una rigida gerarchizzazione delle figure dei santi che di regola, rispetto agli uomini comuni, dovevano essere rappresentati nella parte superiore del quadro, i committenti in basso e la folla ancora più in basso.
È, certamente, venuta meno agli artisti contemporanei la capacità di elaborare in modo articolato e personale il simbolo, ad esempio del cane sofferente. Vargas Llosa non ha assolutamente scavato nell’azione che il simbolico (il cane) ha avuto su di lui, per renderla metafora di qualcos’altro.
Infatti, come sanno i lettori, il vocabolo “metafora”, deriva dal greco “metaphèrein”, e significa “portare al di là”. Essa metafora allora si appropria di una parola, nel nostro caso di un’immagine, e la “porta al di là” del suo significato corrente, per espanderla verso nuovi significati, per esempio quelli della violenza, della forza bruta o come nel caso di Bosch di una infinita molteplicità di simboli e metafore che parlano dei difetti e dei peccati degli uomini e così via.
Ora, se un artista preleva direttamente il simbolo dalla realtà senza elaborarlo, vuol dire che esso non ha turbato profondamente neanche lui.
Una domanda sorge spontanea, a questo punto.
“Cosa accade nella società contemporanea? Quali comportamenti esibisce? Quali valori esprime?” Oggi, più del passato, siamo letteralmente bombardati da ogni genere di notizie e di comportamenti, che hanno messo in campo valori “altri”, come sempre avviene nella storia, che sarà la storia stessa successivamente a criticare.
Purtroppo, al momento, al posto dei valori vengono esibiti solo modelli di ogni genere, insieme a una grande confusione di ruoli e di comportamenti.
E tanto per rinfrescare la memoria: il valore nasce in seno a una comunità e viene condiviso da questa. Esempio: il valore dell’onestà, della bellezza, della bontà, della conoscenza e via dicendo, e quindi esso dura nel tempo, mentre il modello viene imposto dall’alto, da fuori, da quello che si potrebbe definire: “Potentato del superfluo”. Questo, essendo sollecitato da fatti economici, innanzi tutto, sociali, antropologici e quant’altro, quando il modello non va bene, perché non rende più dal punto di vista economico, politico, sociale, antropologico ecc. lo cambia.
Eppure è stato lui stesso in quanto potentato ad averlo creato ma ora ne impone un altro più redditizio, senza che noi ce ne accorgiamo razionalmente.
Basta dare uno sguardo, a mo’ di esempio, ai vari lifting contemporanei, che dovrebbero migliorare, rendere più attraenti, affascinanti donne, in primis, e uomini, per rendersi conto che, quando domina l’estetismo, l’estetica, nel senso di “aisthesis” diventa facciata.
Uomini e donne allora diventano maschere, diventano uomini e donne cosali, in nome di cosa? In nome di un’estetica del business. Di un’estetica imposta dall’alto, magari volgare, di contro a un’estetica del “sapere” (fac eos ignaros et imperare poteris?), dell’osservare e magari del “vedere”.
Kokoschka, grande artista e grande insegnante, alcuni decenni fa aveva fondato “la scuola del vedere” a Salisburgo e diceva ai suoi discepoli di svegliarsi ogni mattina e di guardare l’attorno come se fosse la prima volta, perchè invariabilmente avrebbe condotto al “vedere”.
Oggi, allora, l’attorno suggerito dal grande uomo e insegnante è dentro il nostro piccolo protettivo guscio? Lascio al lettore l’interrogativo insieme a un altro: il disagio fisiognomico, di cui sopra, è dovuto al disagio del benessere? La bellezza di conseguenza ricercata è quella dei manichini dei grandi magazzini? È questa l’ideologia di un’Italia post-fisiognomica?
Avanzo un’ipotesi ironica: “Forse, oggi, mettere in funzione il cervello sarebbe un lusso così poco costoso da non metterlo neanche in conto?”
Lidia Pizzo


