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Realtà e simbolo

Cara lettrice e caro lettore, come avrò detto qualche altra volta, al fine di semplificare le cose, userò il maschile per comodità.  
E, dal momento che mi rivolgo a persone di ottima cultura, cercherò di essere più sintetica possibile per dire del modo in cui gli uomini siano riusciti a rendere simboliche le cose, che stanno in questo mondo e ad elaborarle, per darci una molteplicità di visioni, per farci passare dal dato fisico al dato metafisico, semplicemente mettendo insieme e trasformando le immagini assunte a simbolo di una qualche cosa.
Un esempio lampante la croce. Nella realtà è costituita da due pezzi di legno, poi divenuta emblema di sacrificio, morte, abnegazione, dolore e via discorrendo.

Ma, come si è arrivati a rendere simbolico il mondo? Ovviamente il concetto affonda le radici nella preistoria, a dimostrazione che l’uomo sin dagli albori ha acquisito una capacità simbolica col creare un mondo o più mondi paralleli a quello vero.

Bastano un paio di esempi: la Venere di Willendorf risalente a 30.000-25.000 anni a.C. 
Ovviamente, la sculturina di soli 11 centimetri non è un ritratto, ma un simbolo di fertilità. Ne consegue che in tempi remotissimi fertilità significava sopravvivenza della specie e quindi essa costituiva il fine per cui gli individui vivevano e il mezzo con cui si rivolgevano alla divinità per implorarne il favore.

Ma, quale fu il vero valore di queste testimonianze? La Venere di Willendorf insieme alle tante altre trovate infisse persino nei pavimenti delle capanne permisero all’uomo di svincolarsi dal mondo reale per farlo diventare astratto, in altri termini per renderlo simbolico.

Aggiungiamo i graffiti della grotta di Lascaux, definiti la “Cappella sistina dell’antichità”. Essi rappresentavano animali e, anche qui, l’animale da fatto reale perse la sua valenza concreta, per diventare fatto simbolico: auspicio di buona caccia, per esempio, oppure altro. Immaginate, allora, la miriade di simboli che si vennero a organizzare nel corso della storia.

Nella civiltà occidentale, come voi lettori siete a conoscenza meglio di me, nacquero anche i miti, storie mai accadute ma sempre attuali, perché penetrano nella profondità della psiche umana e cercano di interpretarne i comportamenti. 

Il mito di Narciso, ad esempio, per molto tempo è stato interpretato come simbolo dell’egocentrismo di un soggetto innamorato di se stesso. Infatti, il giovane, specchiandosi nell’acqua, resta così impressionato dalla bellezza della propria immagine da volersene appropriare, per cui si tuffa in acqua e annega. Questa decodificazione è stata viva a lungo e vige ancora adesso. 

Personalmente, invece, ho interpretato il simbolo diversamente. Ho pensato che Narciso, guardandosi nell’acqua, elemento mobile, logicamente non vedesse un’immagine stabile di sé ma tante immagini mutevoli, per cui, non riuscendosi a capacitare sulla vera, si tuffa nell’acqua per scoprirlo e annega e quindi diventa simbolo della complessità del reale.

Oppure: Narciso, quando si specchia nell’acqua, insieme alla sua mutevole immagine, che peraltro non conosce, vede anche cambiare tutto ciò che lo circonda, e, non riuscendo a raccapezzarsi sulla verità e realtà delle cose, pensa di buttarsi in acqua per scoprirlo, così da carpire il segreto e potrei continuare con altre interpretazioni. Come si vede, il simbolo è sempre uno, Narciso, però può essere organizzato in modo diverso a seconda delle epoche in cui si vive, ed è appunto l’organizzazione dei simboli che ha permesso il progresso umano.

La storia, la filosofia, la letteratura, l’arte e così via si sono evolute grazie alla disgregazione e riorganizzazione dei simboli.

Detto questo, non mi resta altro che portare all’attenzione del lettore, facendo un “saltino” di millenni, un dipinto della fine del ‘400: “Il giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch, che ammirai alcuni anni fa a Madrid, esposto solitario in una teca in bella vista, quasi a voler sottolineare la difficoltà della lettura dell’opera, che esprimeva in simboli complessi il pensiero religioso del periodo.

Gli stessi colori che determinano il tono dominante sono simboli, come il rosa o il rosso, le tinte dell’amore e stadio finale del magistero alchemico in quanto ultima fase della trasformazione dell’adepto, per raggiungere la perfezione e di cui parleremo in seguito.

Hieronymus Bosch - Il giardino delle delizie - Prado - Madrid
Hieronymus Bosch - Il giardino delle delizie - Prado - Madrid

Non manca l’azzurro che è il simbolo del male. E comunque questi accenni sono solo dei dettagli, ma la lettura dell’opera è, per la verità, assai complessa e richiederebbe molto spazio. Quindi mi fermo qui promettendo di occuparmene in futuro. Al momento mi preme sottolineare che non tutti i simboli hanno la medesima complessità ed efficacia di quelli del nostro Bosh.

Per restare in tempi a noi contemporanei, porto un altro esempio, al fine di sottolineare come un simbolo può essere anche banale, scandalizzare o altro.

Personalmente, spesso, ho relazioni con il mondo dell’arte e uno degli “avvenimenti” magnificato o denigrato su molte riviste del settore è stato questo: un artista, certo Habacuc Vargas, ha recuperato un cane morente, lo ha portato in una galleria d’arte, lo ha legato a una corda impedendogli di alimentarsi e poi lo ha fotografato. Questo ha fatto scandalo, ma scandalo e niente più, secondo la mia modesta opinione. 

A me personalmente, ma non so a voi, non ha dato emozioni forti, perché queste cose ogni giorno le vediamo in TV. Ma non vediamo solo il cane che muore per fame, anche uomini e, quel che è di più, bambini. Quindi, queste immagini, trasferite in campo artistico (come per esempio il letto di un’artista americana esibito dopo cinque notti insonni!), non creano emozioni, piuttosto un certo sconcerto, una grande delusione. Infatti, l’arte, oggi, si è ridotta a una caccia alla “trovata” e tutto quello che, al massimo, può suscitare è indignazione, ma non nei confronti di chi lascia morire i cani, nei confronti dell’artista, che non riesce ad elaborare il simbolo del cane morente, per darci una emozione molto più profonda e universale.

Infatti, per convertire un simbolo qualsivoglia in fatto emozionante, è necessario che esso sia trasformato in metafora, allegoria, metonimia o altro, che impressioni il riguardante e lo faccia pensare.

Guillermo Habacuc Vargas
Guillermo Habacuc Vargas

In concreto, per comprendere meglio il concetto di cui sopra, porto ad esempio un quadro che tante persone conoscono: “Il seppellimento di Santa Lucia”, nella Chiesa di Santa Lucia fuori le mura a Siracusa, eseguita dal Caravaggio nel 1608 durante l’ultima delle sue fughe.

Qui il simbolico è completamente stravolto rispetto all’iconografia del tempo.

La santa, simile a un fiore delicato, giace a terra, le fanno da contrasto, in primo piano, le figure enormi, quasi fossero energumeni, dei seppellitori, simbolo della violenza bruta perpetrata nei confronti del più debole, dell’inerme.
Quale quinta di palcoscenico vediamo la folla dei fedeli con i volti addolorati. Il tutto schiacciato in basso da una enorme campitura scura nella parte superiore del quadro, che dispone, e quasi obbliga l’occhio alla fruizione della parte inferiore e in primis del primo piano con i corpi enormi dei seppellitori, come facevo notare, a voler simboleggiare che la forza, la violenza che prevale sulla santità, sulla bontà, almeno su questa terra. Mentre la santa, altro simbolo, giace a terra, dipinta contro i dettami della Controriforma, che aveva stabilito una rigida gerarchizzazione delle figure dei santi che di regola, rispetto agli uomini comuni, dovevano essere rappresentati nella parte superiore del quadro, i committenti in basso e la folla ancora più in basso.

Caravaggio - Il seppellimento di Santa Lucia - Siracusa
Caravaggio - Il seppellimento di Santa Lucia - Siracusa

La colomba per esempio, simbolo dello Spirito Santo doveva stare più in alto anche rispetto a un Gesù, qualora il dipinto prevedesse questa immagine.

Ecco perché quando osservate un quadro che data dalla fine del ’500 in poi voi vedete sempre la stessa disposizione delle figure. Nel caso del Caravaggio, solo l’eccellenza del pittore e delle sue pitture lo salva dall’accusa di blasfemia (da tenere a mente che allora i roghi erano in funzione… a pieno ritmo, come i supermercati di oggi, tanto per sorridere un po’).

Ma, torniamo al nostro pittore, il quale, nello stravolgere il simbolico codificato del suo tempo, lo ricompone in una nuova visione e, nonostante siano passati secoli, la fruizione di questo capolavoro emoziona sempre. È una composizione corale che lascia senza fiato, in cui il coro è silenzioso e il corifeo giace a terra senza vita. Parla solo la forza bruta, per contrasto e non per contiguità.
Basta paragonare la performance di Vargas Llosa del cane morente per rendersi conto della differenza, almeno nel campo dei contenuti, lasciando da parte la forma.

È, certamente, venuta meno agli artisti contemporanei la capacità di elaborare in modo articolato e personale il simbolo, ad esempio del cane sofferente. Vargas Llosa non ha assolutamente scavato nell’azione che il simbolico (il cane) ha avuto su di lui, per renderla metafora di qualcos’altro.

Infatti, come sanno i lettori, il vocabolo “metafora”, deriva dal greco “metaphèrein”, e significa “portare al di là”. Essa metafora allora si appropria di una parola, nel nostro caso di un’immagine, e la “porta al di là” del suo significato corrente, per espanderla verso nuovi significati, per esempio quelli della violenza, della forza bruta o come nel caso di Bosch di una infinita molteplicità di simboli e metafore che parlano dei difetti e dei peccati degli uomini e così via.

Ora, se un artista preleva direttamente il simbolo dalla realtà senza elaborarlo, vuol dire che esso non ha turbato profondamente neanche lui. 
Una domanda sorge spontanea, a questo punto. 
“Cosa accade nella società contemporanea? Quali comportamenti esibisce? Quali valori esprime?” Oggi, più del passato, siamo letteralmente bombardati da ogni genere di notizie e di comportamenti, che hanno messo in campo valori “altri”, come sempre avviene nella storia, che sarà la storia stessa successivamente a criticare. 
Purtroppo, al momento, al posto dei valori vengono esibiti solo modelli di ogni genere, insieme a una grande confusione di ruoli e di comportamenti.

E tanto per rinfrescare la memoria: il valore nasce in seno a una comunità e viene condiviso da questa. Esempio: il valore dell’onestà, della bellezza, della bontà, della conoscenza e via dicendo, e quindi esso dura nel tempo, mentre il modello viene imposto dall’alto, da fuori, da quello che si potrebbe definire: “Potentato del superfluo”. Questo, essendo sollecitato da fatti economici, innanzi tutto, sociali, antropologici e quant’altro, quando il modello non va bene, perché non rende più dal punto di vista economico, politico, sociale, antropologico ecc. lo cambia.

Eppure è stato lui stesso in quanto potentato ad averlo creato ma ora ne impone un altro più redditizio, senza che noi ce ne accorgiamo razionalmente.

Basta dare uno sguardo, a mo’ di esempio, ai vari lifting contemporanei, che dovrebbero migliorare, rendere più attraenti, affascinanti donne, in primis, e uomini, per rendersi conto che, quando domina l’estetismo, l’estetica, nel senso di “aisthesis” diventa facciata. 
Uomini e donne allora diventano maschere, diventano uomini e donne cosali, in nome di cosa? In nome di un’estetica del business. Di un’estetica imposta dall’alto, magari volgare, di contro a un’estetica del “sapere” (fac eos ignaros et imperare poteris?), dell’osservare e magari del “vedere”.

Kokoschka, grande artista e grande insegnante, alcuni decenni fa aveva fondato “la scuola del vedere” a Salisburgo e diceva ai suoi discepoli di svegliarsi ogni mattina e di guardare l’attorno come se fosse la prima volta, perchè invariabilmente avrebbe condotto al “vedere”.

Oggi, allora, l’attorno suggerito dal grande uomo e insegnante è dentro il nostro piccolo protettivo guscio? Lascio al lettore l’interrogativo insieme a un altro: il disagio fisiognomico, di cui sopra, è dovuto al disagio del benessere? La bellezza di conseguenza ricercata è quella dei manichini dei grandi magazzini? È questa l’ideologia di un’Italia post-fisiognomica?

Avanzo un’ipotesi ironica: “Forse, oggi, mettere in funzione il cervello sarebbe un lusso così poco costoso da non metterlo neanche in conto?” 

Lidia Pizzo